Cibo cooperativo

Enrico Casola

 

Per analizzare le crisi economiche, finanziarie, politiche, culturali, ambientali, climatiche che ci troviamo ad affrontare possiamo partire dalla considerazione che la popolazione umana continua a crescere sovraffollando la terra.

Comunemente si ritiene che la crescita progressiva della popolazione sia dovuta esclusivamente ad un aumento dei tassi di natalità, ma in realtà non è proprio così. Prima ancora delle nascite, questo fenomeno dipende da un miglioramento delle condizioni di vita e dall’introduzione di farmaci in grado di ridurre i tassi di mortalità facendoci vivere di più.

Le Nazioni Unite hanno elaborato una revisione delle prospettive relative alla popolazione mondiale in un documento che riporta l’andamento della popolazione mondiale sino ad oggi e quello previsto per i prossimi decenni, con relative implicazioni socio-economiche connesse. Il quadro che ne emerge è preoccupante.

Il primo dato su cui riflettere è l’incredibile aumento della popolazione mondiale negli ultimi due secoli, se si pensa che siamo passati dal miliardo di esseri umani del 1800 ai circa 7,5 miliardi di oggi, con una previsione di quasi 10 miliardi nel 2050 ed oltre 11,5 nel 2100.

Il numero cioè di essere umani si è moltiplicato per sette in soli due secoli, dopo che ne erano occorsi decine per raggiungere una popolazione globale di un miliardo. È un dato che risente fortunatamente dell’aumento della vita media, grazie agli enormi progressi fatti in medicina, ma anche di disparità enormi in termini di consapevolezza e maturità sociale tra i vari angoli del pianeta.

Infatti dei 7,5 miliardi di esseri umani oggi viventi, solo 1,2 vivono nei cosiddetti paesi sviluppati mentre 6,3 in quelli più arretrati, con un tasso di fecondità che nei paesi a minimo sviluppo, pur registrando un relativo calo nel numero di figli per donna, è attestato intorno a 4,3.

Stando così le cose e tenuto conto del relativo calo demografico nelle aree del mondo più sviluppate, il documento dell’ONU prevede per il 2050 quanto segue: la Cina perderà circa 50 milioni di abitanti, scendendo a 1,4 miliardi, mentre l’India ne guadagnerà circa 300 milioni, salendo a 1,7 miliardi, il sorpasso è già avvenuto a fine 2023.

Incrementi importanti anche in Nigeria, con un aumento di 200 milioni, e negli Stati Uniti con un aumento di 70 milioni di abitanti. L’incremento demografico, oltre che in India, Nigeria e Stati Uniti, si concentrerà in Repubblica Democratica del Congo, Pakistan, Etiopia, Tanzania, Uganda ed Indonesia.

Tutto questo dovrebbe attestare la popolazione mondiale nel 2050 intorno ai 9,8 miliardi, di cui circa 1,3 nei paesi sviluppati e circa 8,5 in quelli meno sviluppati.

La popolazione mondiale, attualmente, ha già meno risorse di quante gliene occorrano. Le disponibilità annuali vengono esaurite infatti in meno di 6 mesi. Questo significa che, all’aumentare del numero di esseri umani sulla terra, diminuiscono sempre di più le risorse a disposizione per il loro sostentamento.

Appare evidente che la tenuta del sistema Terra passa anche attraverso una gestione consapevole del fenomeno demografico, potremmo dire prendendo a prestito il titolo di un articolo dell’economista Stephane Madaule pubblicato su Le Monde il 16 Febbraio 2019 che “la demografia è l’anello mancante dello sviluppo durevole”.

Sì, perché se siamo sette volte di più a consumare tutto questo vuol dire emettere una quantità costantemente maggiore di gas serra legati alle attività umane ed alle abitudini alimentari, oltre che produrre una quantità incalcolabile di rifiuti. Ma l’inarrestabile crescita demografica passa anche attraverso l’occupazione di sempre nuovi spazi con il conseguente dissesto idrogeologico e la sottrazione di questi spazi ad altre specie animali che finora le occupavano.

Ecco allora che mentre la questione demografica stenta a trovare spazio nelle grandi conferenze internazionali consacrate al clima, alla biodiversità o alla desertificazione, tra i giovani più sensibili ed angosciati dalle problematiche connesse al cambiamento climatico comincia a farsi strada l’ipotesi: astenersi dall’avere figli.

Si tratta evidentemente di un approccio esagerato e eccessivamente integralista, fermo restando che è auspicabile che si affermi una consapevolezza molto maggiore in tale ambito, anche perché in alcuni paesi europei, a cominciare dal nostro, si assiste in realtà già da tempo ad una marcata tendenza alla diminuzione fisiologica della natalità.

Una tendenza spesso vista e descritta frettolosamente con preoccupazione. Abbiamo visto infatti che le aree del mondo più soggette al fenomeno sono altre ed è facile intuire che, se non si interverrà con opportune politiche di contenimento della natalità, presto ci si dovrà confrontare oltre che con l’evidente dissesto ambientale anche con prevedibili ed imponenti ondate migratorie.

È una questione evidentemente di maturità sociale ed economica, oltre che di qualità della vita. Dove la qualità della vita è migliore tendenzialmente si fanno meno figli e si vive più a lungo. Non è una questione né antropologica né di razza, basti pensare a tal proposito che c’è numericamente una seconda se non una terza Italia disseminata nel mondo. Quando la povertà mordeva anche nel nostro Paese, la gente faceva più figli e cercava naturalmente per sé e per loro una via di fuga.

Le due questioni, quella economica e quella demografica, vanno dunque di pari passo. Stephane Madaule sostiene che la libertà di sfruttare a proprio piacimento le risorse disponibili è drammaticamente finita e probabilmente ha ragione. Se la popolazione mondiale si fosse stabilizzata sul miliardo di due secoli fa oggi non avremmo né un problema di risorse finite e da condividere, né l’urgenza di cambiare modello di sviluppo.

Tutto ciò è figlio però in parte, in funzione di quanto detto prima, anche di una crescita mondiale che si è realizzata più o meno volutamente in maniera del tutto disomogenea e che ha tagliato fuori nei benefici ma non nei danni connessi la stragrande maggioranza delle aree del mondo.

La crescita della popolazione umana, sul lungo periodo, non è sostenibile per l’integrità della biosfera. Gli impatti sulla disponibilità di risorse naturali, quanto sulla perdita di biodiversità e sul cambiamento climatico, però, dipendono molto anche dal nostro tipo di modello di sviluppo. Un impatto globale minore, quindi, si ottiene non solo con più tecnologia ma anche con più investimento in istruzione e riduzione della povertà.

La futura crescita della popolazione e lo sviluppo economico impongono livelli senza precedenti di rischio di estinzione per molte più specie in tutto il mondo, specialmente i grandi mammiferi dell’Africa tropicale, dell’Asia e del Sud America. Tra i maggiori fattori di rischio c’è la perdita di habitat a causa dell’estendersi di aree agricole, che colpisce circa l’80% di tutte le specie di uccelli e mammiferi terrestri. Ma a minacciare gli habitat vi sono anche il disboscamento, l’urbanizzazione, l’estrazione mineraria e la creazione di corridoi di trasporto. Le varie forme di «mortalità diretta» come la caccia mettono in pericolo fino al 50% di tutte le specie di uccelli e mammiferi e una percentuale ancora maggiore di grandi erbivori.

Come per la biodiversità, anche per il cambiamento climatico si sono accumulati studi che mettono in luce quanto un’eccessiva crescita della popolazione non possa che impattare negativamente sull’integrità della biosfera – e quindi anche sul nostro benessere complessivo.

Gli impatti su clima, biodiversità e risorse, in ogni caso, dipendono non solo dal numero di persone che popolano il pianeta ma anche dal modo in cui vivono, per cui tanto il livello di tecnologia quanto gli stili di vita e il modello di sviluppo rappresentano variabili importanti.

LA RISPOSTA COOPERATIVA

L’emergenza demografica pone fortemente un problema di sicurezza alimentare, intesa nella sua accezione più ampia come la possibilità di garantire in modo costante e generalizzato acqua ed alimenti per soddisfare il fabbisogno energetico di cui l’organismo necessita per la sopravvivenza e la vita, in adeguate condizioni igieniche.

La definizione comunemente accettata a livello internazionale è quella elaborata al World Food Summit nel 1996 secondo la quale essa descrive una situazione in cui: tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana.

L’agricoltura, la pesca e l’acquacoltura sono attività essenziali per l’approvvigionamento di cibo e sicuramente adottare una dieta sostenibile significa non solo preoccuparsi del futuro del Pianeta, delle prossime generazioni, ma anche, oggi, della nostra salute. I principi da adottare per una dieta sostenibile sono semplici da seguire:

  • mangia sano e riduci i cibi che hanno subito lunghi processi di trasformazione;
  • scegli cibi con pochi imballaggi, soprattutto se multipli e di plastica;
  • diversifica la tua dieta e rendila più possibilmente varia;
  • riduci gli sprechi e consuma ciò che acquisti;
  • riduci la quantità di carne e acquista solo pesce di taglia adulta.

Risulta evidente che la produzione di cibo è una attività fondamentale per il benessere umano e che scelte politiche che comportano una riduzione delle rese determinano un aggravamento delle condizioni per una parte povera dell’umanità.

Al momento riteniamo che a fronte di una curva demografica ancora in ascesa bisogna fare delle scelte e pertanto proponiamo politiche che contemperino la sostenibilità per le produzioni di origine cooperativa e la sicurezza alimentare in termini di qualità delle produzioni e di quantità necessarie ad assicurare cibo per tutti.

Tale scelta porterebbe il modello cooperativo a diventare sempre di più lo strumento per condividere non solo attività produttive, ma anche una crescita dei singoli produttori verso un cammino che associ la produzione e la qualità, cosa che in una ottica capitalistica non è possibile.

Agricoltura

Le proteste degli agricoltori in tutta l’Europa pongono anche questa attività primaria al centro del dibattito ed anche in questo caso la risposta cooperativa risulta essere chiara ed alternativa alle logiche del consumo senza limiti.

L’agricoltura cooperativa è da sempre a favore dell’agroecologia quale via maestra per garantire la sostenibilità economica delle attività agricole, il ripristino della salute e assicurare la sicurezza alimentare ai cittadini, anche perché in tal modo si tutela anche la salute degli agricoltori e dei consumatori, la qualità degli ecosistemi, la biodiversità e i paesaggi rurali.

La transizione ecologica è un beneficio collettivo che gli agricoltori e allevatori devono poter proseguire con i finanziamenti promessi nella strategia Farm to Fork, che il Parlamento e il Consiglio hanno deviato verso altri obiettivi.

L’agricoltura italiana ha investito negli anni in termini di qualità delle produzioni sia come qualità dei prodotti che come qualità ambientale delle produzioni, in buona sostanza gli agricoltori producono cose buone in modo sostenibile.

Il vero problema in questo momento è il prezzo dei prodotti sul campo che continua ad essere troppo basso con un utile completamente all’interno del segmento commerciale, in Italia a fronte di una produzione di qualità assolutamente elevata sia per salubrità che per prodotti gli agricoltori ottengono tra il 5 e il 15% del costo del prodotto finale.

In effetti, oggi riteniamo che l’unica politica che possiamo proporre se non pretendere è di un controllo sui prezzi sul campo al fine di sostenere e valorizzare le produzioni italiane ed in particolare quelle cooperative che sommano a quanto detto un valore intrinseco di mutualità laddove i soci mettono insieme il lavoro in una organizzazione orizzontale che vede gli agricoltori protagonisti.

In buona sostanza siamo a chiedere che il Ministro dia seguito a tante affermazioni di principio di tutela delle produzioni agricole italiane aprendo un tavolo, che veda la partecipazione delle Associazioni cooperative, per definire il prezzo minimo sul campo dei prodotti.

L’impianto normativo esistente, contenuto nel DECRETO LEGISLATIVO 8 novembre 2021, n. 198, prevede il divieto di pratiche commerciali sleali ed in particolare delle vendite sottocosto, utilizzando il prezzo calcolato sulla base dell’andamento dei prezzi dei fattori di produzione impiegati in agricoltura rilevati dall’ISMEA.

L’inapplicazione della normativa porta alla richiesta di creare un tavolo permanente presso il Ministero che serva a condividere l’elaborazione dei prezzi medi alla produzione con organizzazioni professionali e datoriali maggiormente rappresentative a livello nazionale, tenendo sempre presente l’equilibrio di mercato e individuando come varia il benessere sociale.

Va da sé che la sola esposizione di un prezzo al consumo con la sua composizione in termini di componenti darebbe al consumatore possibilità di scelta tra prodotti anche sulla base della equità sociale.

Tutto ciò possiamo riassumerlo nell’introduzione di prezzi garantiti per i prodotti agricoli italiani, la definizione di prezzi minimi d’ingresso nel territorio nazionale, il sostegno economico alla transizione agro-ecologica.